CRONACA
L' ANALISI
L'ombra che arriva su Capaci e via D'Amelio
di GIUSEPPE D'AVANZO
Spatuzza mentre entra in aula a Torino
CI SONO due frasi che - tragiche e spaventose, se vere - vanno estratte dal reticolo di parole dette a Torino da Gaspare Spatuzza. Condannato all'ergastolo per sette stragi e quaranta omicidi, ora testimone dell'accusa, il mafioso di Brancaccio definisce con una formula inedita Cosa Nostra. La dice "un'organizzazione terroristica mafiosa".
La novità è nell'aggettivo terroristica, naturalmente. Mai un mafioso lo aveva detto e ammesso. Dirlo, ammetterlo conferma che, dentro Cosa Nostra, esiste (o è esistito) un forte potere centrale di decisione, la presenza di una forza militare molto efficiente e determinata, ma soprattutto la volontà di abbandonare, al tramonto della Prima Repubblica, la tradizionale posizione di deferenza parassitaria verso l'establishment per condizionare le politiche, gli uomini e i governi della Seconda.
La risoluzione - anche al prezzo di offrire l'indiscutibile prova della propria esistenza - postula la volontà di Cosa Nostra di costringere a un "patto" lo Stato, le classi dirigenti, il sistema politico nella scia un'escalation terroristica. Nel solco di questa strategia c'è la seconda, drammatica dichiarazione, ancora senza riscontro, che Gaspare Spatuzza ha offerto all'aula di Torino. È un j'accuse che non si era mai letto nei verbali di interrogatorio acquisiti al processo: "Berlusconi e Dell'Utri sono i responsabili delle stragi del 1992/1993".
Il 1992 è l'anno degli eccidi di Capaci e di via D'Amelio. Quindi, non solo dell'assalto ai beni artistici della penisola (Uffizi, Torre dei Pulci, l'Accademia dei Georgofili a Firenze; la Galleria di Arte moderna a Milano; San Giovanni in Laterano e S. Giorgio al Velabro a Roma), ma il capo del governo e il suo più stretto collaboratore, nell'avventura imprenditoriale e politica, sarebbero addirittura gli ispiratori anche dell'assassinio con il tritolo di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e Paolo Borsellino (19 luglio 1992).
Con poche frasi che nessuno in aula ha avuto voglia di approfondire per il momento (accettabile forse per la difesa, incomprensibile per l'accusa), Gaspare Spatuzza riscrive così le mappe che hanno orientato finora le mosse dei magistrati; la geografia dell'ambiguità endemica della politica italiana nei confronti della mafia; gli archetipi e le prassi di Cosa Nostra.
La prima prova pubblica del mafioso di Brancaccio come testimone dell'accusa - diventata happening mediatico, teatro un po' noioso, spettacolo mediocre - incuba tutte le originalità di una stagione che può avere effetti micidiali per la scena politica e istituzionale, lungo le linee di confine dove la politica incontra la mafia, negli ingranaggi della macchina giudiziaria. L'alambicco genera molte cose nuove. Possono essere memorizzate in qualche quadro.
Morte di un processo
Spatuzza prepara l'esplosivo per fare secco Paolo Borsellino. Ruba l'auto, la "prepara" per via D'Amelio. Non è, nel 2008, tra i condannati. Ora si autodenuncia. Offre le prove della sua responsabilità diretta (dice: controllate i freni dell'auto, sono nuovi perché - prima della strage - li ho voluti rifare). I controlli confermano e smascherano i "collaboratori di giustizia" di quel processo risolto con condanne definitive. Si chiamano Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino. Si erano autoaccusati. Candura ora ammette le fandonie. Tutti i processi, nati dall'assassinio di Paolo Borsellino vanno celebrati di nuovo, liberando gli innocenti.
Quelle sentenze, la loro "verità storica" è ormai scritta sull'acqua. Spatuzza incamera un'alta credibilità (come liquidarlo da questo momento?). Infligge al lavoro istruttorio della procura di Caltanissetta uno sbrego perché le confessioni decisive sono impure. Apre una questione: chi ha deciso e orientato il gioco pericoloso degli investigatori, così selettivamente sordi ai dati da convalidare le parole di Candura e Scarantino, mediocri narratori, forse addirittura a scrivergliele? Quale interesse hanno coltivato in quegli anni difficili (1992/1994) le burocrazie della sicurezza?
Strategia unica
Giovanni Falcone muore perché doveva morire, perché doveva essere punito. Paolo Borsellino, per ragioni ancora oggi misteriose. Questo ci è stato sempre raccontato. La morte di Falcone, l'assassinio di Borsellino - al contrario - non sono due iniziative distinte, separate da un doppio movente. Spatuzza rovescia convinzioni antiche di 17 anni con un ricordo. Dice: mi occupai io dell'esplosivo di via D'Amelio. Lo ritirammo a Porticello prima del "botto" a Capaci. Dunque la distruzione dei due magistrati è l'obiettivo di un piano che, fin dall'inizio, prevedeva anche la morte di Borsellino.
L'omogeneità del progetto mafioso liquida - meglio, attenua - l'oscura controversia intorno alla "trattativa" avviata dagli ufficiali del Ros con Vito Ciancimino. Scioglie l'ipotesi che Borsellino sia morto perché, consapevole della trattativa dello Stato con i Corleonesi, vi si era opposto. Disegna un'altra scena. Capaci, via D'Amelio, nel 1992, le bombe in continente, nel 1993, sono tappe di una lucida e mirata progressione terroristica che avrebbe dovuto distruggere nemici giurati e sapienti, aprire la strada a un sistema politico più poroso agli interessi di una Cosa Nostra, umiliata e sconfitta con la sentenza della Cassazione (1992) che rendeva definitive le condanne del primo grande processo alla mafia istruito dal pool di Caponnetto e Falcone.
Trattative
Se sfuma il valore del negoziato tra lo Stato e Cosa Nostra nel 1992, Spatuzza afferma che la trattativa con il sistema politico non si è mai spezzata. Mai, perché è stata sempre viva e costante dalla fine degli anni ottanta fino ad oggi. All'inizio (1987/1989) furono i socialisti, crasti che molto promisero e nulla mantennero. E' la ragione che conduce a Roma, nel 1991, la créme dell'Anonima Assassini di Cosa Nostra. Nella Capitale sono Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori. Hanno "armi leggere". Devono uccidere Claudio Martelli (ministro di Giustizia), Giovanni Falcone (direttore degli Affari Penali), Maurizio Costanzo. Accade qualcosa in quel momento, dice Gaspare Spatuzza. Il tentativo rientra. Falcone sarà ucciso a Palermo con metodi terroristici, subito dopo Borsellino.
Perché? Il testimone ritiene che, in quel momento, accade qualcosa. Muta il progetto. Appaiono nuovi soggetti. Non sono ancora un partito politico, ma presto lo diventeranno. E' ingenuo pensare che Forza Italia nasca come "partito della mafia" come se l'esistenza di uno o più punti di contatto tra la macchina politica e la macchina mafiosa stabilisca un pieno rapporto di identità, come è altrettanto ingenuo credere che la nascita di un nuovo partito incubi in un vuoto pneumatico, nell'Italia delle sempreterne connessioni tra politica, affarismo e crimine. Dove sono i punti di giuntura di quel "sottomondo" che si immagina attivissimo nella crisi catastrofica del "sovramondo" della Prima Repubblica?
Spatuzza fa con chiarezza i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Sono loro i punti di giuntura e i mediatori e i garanti della nuova stagione. Sono loro "i responsabili", dice. Dunque, sono Berlusconi e Dell'Utri gli interlocutori di un Giuseppe Graviano che, in un giorno del gennaio 1994, annuncia gongolante ai tavoli del Doney di via Veneto a Roma che "tutto è andato a posto" e che "ci siamo messi il Paese nelle mani". Enfasi a parte, ancora a Berlusconi e Dell'Utri pensano gli "uomini d'onore", si fa per dire, quando Filippo Graviano nel carcere di Tolmezzo dice: "Se non arriva quel che ci hanno promesso, è tempo che noi parliamo con i magistrati".
E' il 2004. Il negoziato è ancora in corso, con tutta evidenza. Cosa Nostra attende le mosse accondiscendenti del potere e, senza illusioni o lungimiranza, prepara i suoi nuovi passi. Con una formula mai così esplicitamente sperimentata: parlare con i magistrati e accusare chi "li ha venduti". Quindi, nella resa dei conti si utilizzerà lo Stato contro lo Stato, la magistratura contro il potere esecutivo che ha "tradito gli impegni" all'inizio di un nuovo ciclo di compromissioni politiche. E' questa la trappola che abbiamo sotto gli occhi e lo scenario scandaloso a cui dobbiamo prepararci? E' questa la missione di Gaspare Spatuzza?
Le parole di un Capo
Sono quelle che ancora mancano. Dice la verità, Spatuzza? Mente? O, come spesso accade ai testimoni, il mafioso di Brancaccio percepisce gli eventi di quegli anni a modo suo, se li è impressi nella memoria e la memoria li ha trasformati?
Anche per Spatuzza, come per Buscetta, Contorno, Mannoia, Cancemi, Giuffré, si pone una questione antica per le storie e i processi contro Cosa Nostra e i suoi protettori e amici esterni: il punto di vista dei mafiosi disertori non è mai stato quello della leadership che ha trattato direttamente con i grandi politici - mai una parola da Riina, Provenzano - ma quello dei "quadri, cui i capi hanno spiegato come stavano le cose, nella misura in cui ciò fosse possibile e opportuno". Il rischio è dare per buone le parole di una leadership mafiosa che, per governare uomini e territori, deve autocelebrarsi e autoaccreditarsi con capi, soldati, gregari facili a deformare le informazioni che ricevono, a semplificarle strumentalmente, incapaci di distinguere la complessità dei meccanismi che regolano il funzionamento del potere ufficiale.
Questa condizione oggi può essere spezzata dalle parole di Giuseppe e Filippo Graviano, attesi in aula l'11 dicembre. Sarà la loro testimonianza a mostrare, smentire od occultare il ricatto che la Cosa Nostra siciliana sembra spingere contro il governo e lo Stato. Finora i fratelli di Brancaccio hanno come accompagnato l'iniziativa di Gaspare Spatuzza. Gli hanno mostrato affetto e rispetto. Non si sono rifiutati al confronto con il disertore, al dialogo con i pubblici ministeri. Giocano una loro partita, che è ancora alla prima mano. Si sono detti "dissociati". Lo ha fatto Filippo. Giuseppe ha promesso "una mano d'aiuto per ricostruire la verità" delle stragi. Quindi, accettando di conoscerla dinanzi a un magistrato, ammettendo di esserne uno degli attori anche se non il protagonista.
Burattini e burattinai
La nuova strategia di Cosa Nostra vede la magistratura in un ruolo quasi ancillare. Deve raccogliere le parole dei testimoni; interpretare - per districarle - le "mezze parole" che anche leader come i fratelli Graviano lasciano cadere nei verbali; accettare il deposito di "pizzini" che Massimo Ciancimino consegna ai pubblici ministeri, decidendo in autonomia la convenienza e l'utilità. La magistratura non appare oggi padrona del gioco. Con una guida delle indagini frammentate in quattro procure (Firenze, Caltanissetta, Palermo, Milano) più la procura nazionale antimafia, è testimone di una trama che non controlla, al più interpreta in attesa di vedere quali saranno le cose nuove che accadranno.
Non la favorisce il silenzio di Silvio Berlusconi. La mafia lo chiama esplicitamente in causa. Ha già taciuto, avvalendosi della facoltà di non rispondere, nel primo grado e, ora che lo indicano addirittura come il responsabile delle stragi, tace ancora. Non sa che cosa ha in mente Cosa Nostra, che cosa vogliono Spatuzza e i Graviano. Incastrato da qualche incontro pericoloso e infognato in un mestiere dai risvolti opachi, fiuta insidie anche nelle domande apparentemente innocue.
Nega tutto e non si accorge che, in poche mosse, potrebbe finire confinato in una posizione insostenibile, da dove minacciano di sradicarlo finanche gli avvocati di Marcello Dell'Utri che, dicono, di "non escludere di convocarlo come testimone" in un processo che non ha ancora liberato tutta la sua esplosività.
© Riproduzione riservata (5 dicembre 2009) Tutti gli articoli di cronaca
Nessun commento:
Posta un commento